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Verona. E Terre Scaligere. 1980.
Verona. E Terre Scaligere. 1980.
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Perché Roiter mi pone davanti agli occhi tutto l'ovvio, il meccanico, l'ordinario di me stesso? E perché ottiene, contro il mio ironico desiderio brechtiano di "alienazione", il risultato di coinvolgermi al punto da indurmi a scoprire (sì, a "scoprire") il paesaggio, i monumenti, gli angoli, i frammenti, che condividono il mio stesso registro? Non sono un critico fotografico, e di solito non chiedo alle fotografie altro che una testimonianza legata alle mutevoli leggi del tempo e dell'attualità. I fratelli Alinari e Robert Capa, ovvero l'Italia delle piazze di Umberto I e la Spagna del miliziano colpito da un proiettile, sono uguali nel mio giudizio incompetente: il primo ha fotografato l'apparente pace borghese, il secondo l'eterno lutto della violenza. Atmosfere lontane, eventi non vissuti direttamente.
Ma questo Roiter sfida il mio passato e il mio presente, entra da maestro, e io torno a Shakespeare nella bella Verona, dove mettiamo in scena la nostra scena. Contro di lui, contro la sua seduzione, non mi resterebbe che opporre l'album di fotografie che non ha mai scattato. Per esempio, i poveri del mio paese nella Bassa che, la domenica, uscivano di casa con un pezzo di tagliatelle sulla punta delle scarpe per dimostrare che anche loro avevano mangiato bene. Ma sono costretto a usare i verbi al passato: "uscivano di casa", "avevano mangiato". Roiter non poteva fotografare ciò che non è più visibile, gli annali di un'antica povertà, fortunatamente superata.
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